Otto aree di spreco. Otto buchi neri da cui è afflitta l’Azienda Italia. Emergono dal voluminoso documento della Commissione guidata da Piero Giarda, che è stato consegnato al ministro dell’Economia Tremonti, le indicazioni per la manovra da 40 miliardi che sarà varata a fine mese. Sanità, scuola, università, investimenti pubblici, i settori radiografati: la spesa cresce e i denari potrebbero essere utilizzati in modo più efficiente. Solo la dinamica delle pensioni sembra tenere nel decennio 2000-2009 dopo il boom del passato.
“Una tassonomia per gli interventi di governo della spesa pubblica”, si intitola l’introduzione che dietro un linguaggio elegante, corroborato da una mole di dati e tabelle, mette nel mirino le aree di inefficienza e le falle della finanza pubblica italiana.
Gli sprechi del primo tipo riguardano le “applicazioni di un fattore produttivo in misura eccedente la quantità necessaria”. Caso citato: due impiegati fanno un lavoro per cui uno solo sarebbe sufficiente. La seconda categoria di sprechi, individuata dalla Commissione, è il caso in cui lo Stato paga più del valore di mercato. Un esempio frequente? Lo stesso medicinale ha spesso un prezzo differente da Asl a Asl.
La terza area di spreco è senza appello: “Adozione di tecniche di produzione sbagliate e dunque produzione a costi superiori al costo necessario”. La sentenza della Commissione non va per il sottile: lo Stato italiano ha la tendenza “inarrestabile” a utilizzare tecniche di produzione con molta manodopera e pochi macchinari. La quarta reprimenda, si collega alla terza: i servizi pubblici in Italia impiegano modi di produzione “antichi e chiaramente più inefficienti e costosi di quelli che avrebbero utilizzando tecnologie più avanzate e innovative”. Un paese che procede come un dinosauro in Jurassic Park.
Ma anche un paese dove la pubblica amministrazione non si parla, questa è la quinta area di spreco. L’esempio viene da sanità, istruzione e università. “L’esperienza mostra, sentenzia il rapporto, che le decisioni di spesa su questi tre grandi e importanti comparti non prevedono il criterio di valutazione comparata dei benefici associati all’aumento o alla contrazione della spesa in un settore rispetto all’altro”. Segnalano poca lungimiranza gli sprechi del “tipo 6” e del “tipo 7”: i benefici futuri non vengono rapportati ai costi come è avvenuto negli Anni Novanta con l’Alta velocità ferroviaria e non si conosce la dinamica della spesa in termini reali in rapporto ai servizi prodotti.
Infine lo spreco dell’ottavo tipo che va a colpire al cuore il nostro sistema di Welfare: “Le politiche di sostegno dei redditi degli individui o delle famiglie bisognose possono generare disincentivi che riducono la crescita dell’economia e trasformano le condizioni temporanee di bisogno in condizioni permanenti di dipendenza”. Un j’accuse all’assistenzialismo.
Se queste sono le linee guida di intervento, tre settori – sanità, scuola e università – vengono scandagliati a fondo. In primo piano la spesa sanitaria: tra il 2006 e il 2009 la spesa è cresciuta del 2,9% contro un incremento del Pil dello 0,8. Spicca la crescita del 14,1% della spesa per prodotti farmaceutici, e quella del 7,6% per l’acquisto di beni e servizi.
L’assegno che lo Stato ogni anno paga per l’istruzione scolastica è pari a 42 miliardi, in termini assoluti non è tra le più alte dell’area Ocse, ma se si guarda la spesa per il personale ci si accorge che assorbe l’81,5% del totale contro il 79,2 dei paesi maggiormente industrializzati. E in Italia gli studenti per classe sono meno che altrove: 21 nel nostro paese per la scuola secondaria, 23 in Inghilterra, 24,7 in Germania, 23,2 nella media Ocse.